“La mia musica ispirata all’arte”

10492037_551523844969745_7024548727850544479_nIntervista alla cantautrice italiana e insegnante di canto nel fortunato programma televisivo Amici di Canale 5. Di Julian Borghesan

Reduce dal successo del suo ultimo album GIVERNY, abbiamo intervistato  in esclusiva per Sì la cantautrice italiana e insegnante di canto nel fortunato programma televisivo Amici di Canale 5.

 

Grazia, ci può essere arte senza cultura e viceversa?

Arte e cultura sono molto correlate. Ti rispondo con un esempio: fatti un giro nelle periferie delle città e scopri migliaia di ecomostri, di opere pubbliche faraoniche inutili e costosissime. Dunque non è vero che mancano soldi per costruire, manca solo una cosa: la cultura. Che è anche la capacità di analizzare bene se è il caso di sacrificare un territorio per un’opera di cemento, e nel caso positivo la capacità di dare un appalto a un architetto bravo piuttosto che a un figlio di un amico o al simpatizzante del partito o peggio a chi viene ad affari con te. E tuttavia, se poi percorri qualche sottopassaggio o qualche cavalcavia puoi trovare vere opere d’arte: graffiti. Alcuni orribili e senza alcun valore, opera di vandali, ma altri di un’espressività incredibile. Raccontano la rabbia, la delusione, la paura, le difficoltà. Lì dietro c’è un pensiero chiaro, una tecnica raffinata, un’urgenza espressiva. Arte. Che poi un altro pensiero, quello di qualche consigliere di municipio ”illuminato”, con delega al decoro, fa scomparire dietro una mano di grigio. Ecco, sono convinta che con la formazione e l’istruzione diffusa possa instaurarsi un circolo virtuoso tra arte e cultura.

Il tuo ultimo album GIVERNY, realizzato con il pianista e compositore Paolo Di Sabatino e con la partecipazione dell’Orchestra Sinfonica Abruzzese, nasce da un’ispirazione che ci riporta alle suggestioni della pittura francese. Come nasce questo connubio?

Sono anni molto difficili; ho provato a raccontarli negli ultimi due album, sempre attraverso il racconto di storie, reali o immaginate. Ma poi ho riflettuto sulla vita di Monet, che si era rifugiato in un giardino proprio negli anni più cupi della sua vita, con lo scopo -pazzesco se vogliamo- di preservare la bellezza. Nel 1911 era morta la moglie, e a distanza di tre anni il figlio, fuori incominciava a organizzarsi quella che poi è diventata la prima guerra mondiale, e lui cosa fa? Dipinge fiori e ninfee. Eppure rifugiarsi nella bellezza ha salvato lui, e nello stesso tempo è servito per tramandare a noi qualcosa che rischiava di andar perduto: la luce dei tramonti sugli stagni, il germogliare di fiori, le ombre fresche di alberi che ristorano dal caldo. Salvare questa bellezza è stato il senso della sua vita. Questa cosa mi ha colpito profondamente, mi ha commosso e mi ha spinto a cercare elementi di bellezza intorno a me. E li ho trovati molto più vicino di quanto si pensi.IMG_20140808_213835

Che luogo è il giardino di Giverny e qual e’ il tema portante di questo album raffinato ed elegante all’ascolto?

Come ti dicevo, il tema è la bellezza che va preservata. Credo che sia un sentimento condiviso da molti artisti, cito su tutti Paolo Sorrentino, che vi ha dedicato un film. Lui fa emergere quest’urgenza attraverso una dicotomia molto forte tra bellezza vera e la deriva etica e sociale in cui siamo sprofondati. Con un rischio: di relegare nel passato il bello e nel presente l’atroce. E invece non cade in questa banalità. Ho molto apprezzato, ad esempio, che per esprimere il concetto di bello abbia usato anche musiche di contemporanei, come Arvo Pärt, David Lang, Vladimir Martynov. Così anche nel mio giardino la bellezza è contemporanea, ma si esprime attraverso sentimenti di uomini e donne reali: una storia di “poveri amanti”, come direbbe Pratolini, un mondo nascosto di amore e fedeltà che “non osa pronunciare il suo nome”, una corrispondenza affettiva con una persona malata di Alzheimer…La bellezza nell’essere umano, anche nelle sue difficoltà o nel suo dolore. Come diceva Emily Dickinson “mi piace un volto in agonia perché so che è sincero…”

In questi giorni hai iniziato a lavorare al nuovo album. Ci puoi anticipare qualcosa?

Sì, qualcosa posso dirtela, ma stiamo ancora “in progress”. Ad esempio che prende ispirazione ancora una volta dall’arte: il colore come espressione emotiva. Quando ho cominciato a scrivere queste nuove canzoni mi sono accorta che ciascuna richiamava uno o più colori prevalenti, attraverso un loro riferimento diretto, sinestesie o semplicemente attraverso la musica. E siccome ho condiviso queste sensazioni con Fabio Salafia, un pittore bravissimo, conosciuto qualche tempo fa a un’esposizione di sue opere, stiamo realizzando un progetto che è un po’ “multisensoriale”, se si può dire così. E ti anticipo che sto lavorando ancora con Paolo Di Sabatino, un musicista davvero geniale e con cui ci capiamo all’istante, ma questa volta con una formazione più ampia del trio jazz e quindi sonorità un po’ più eterogenee.

Hai scritto canzoni che sono state poi incise da numerosi interpreti italiani. Chi ti è rimasto maggiormente nel cuore e perché?

Per la maggior parte delle canzoni c’è una storia di amicizia o feeling artistico che le rende indimenticabili. Con Ornella Vanoni, ad esempio, abbiamo passato molto tempo insieme per entrare l’una nel mondo dell’altra e raccontare il suo universo. Anche con Rossana Casale o Tosca le canzoni sono il frutto di esperienze che abbiamo condiviso: non è solo un legame artistico o “professionale”. Sono molto felice anche per Nordgarden che ha voluto incidere “Dove mi perdo” nel suo omaggio ai cantautori italiani. L’ho conosciuto una sera che si esibiva a Roma; avremmo dovuto fare un duetto che poi non si è potuto realizzare; ritrovare la mia canzone nel suo album “Dieci” è stato bello perché mi ha confermato una consonanza col suo mondo – apparentemente molto distante dal mio – che avevo colto sin dal primo momento.

Da anni ti dedichi all’attività didattica, tenendo lezioni al Conservatorio e televisivamente alla scuola di Amici. Ci spieghi qualcosa del tuo corso “Voce del verbo cantare” e del metodo del quale si avvale?

E’ un metodo personale, sviluppato in tutti questi anni in cui mi sono esibita praticamente dovunque, dai piccoli club ai Festival più importanti, dai teatri ai programmi televisivi, e si è consolidato attraverso la mia esperienza di musicoterapeuta. In estrema sintesi posso dirti che si focalizza sullo studio della voce, voce come strumento dell’anima, per cui, oltre allo studio della tecnica vocale -imprescindibile – cerco di sviluppare le doti interpretative dell’allievo, lavorando sulle sue emozioni. E’ uno studio che consente di sviluppare e accrescere uno stile ‘personale’.

Viviamo in un paese dove molti giovani vorrebbero diventare famosi cantanti. Non credi che il problema sia proprio questo, ovvero fare musica per diventare famosi e non per vero amore nei confronti di questo linguaggio universale?

Sì, questo è un problema. Ma non è solo un problema dei talent show musicali, è una piaga sociale. Se ti fai un giro su Facebook vedi a che punto siamo arrivati con la ricerca del consenso immediato. E’ il motivo per cui preferisco Amici ad X Factor. X Factor è una passerella di cantanti – molti bravissimi – dove si definisce un modello vincente, lavorando sullo stile, costruendo una personalità, che se non funziona viene cambiata nella puntata successiva. Ci sono esibizioni molto ben costruite, ma che spettacolarizzano un’esibizione, perché sia il più efficace possibile, da subito. Amici invece è una scuola dove i ragazzi portano una loro verità. Certo anche tra le migliaia di ragazzi che si presentano al casting di Amici c’è molta ambizione. Ma io, personalmente, la giustifico solo se i ragazzi portano se stessi, la loro storia e non quella storia che sono disposti ad assumere per il volere del “consenso popolare”. Personalmente cerco di premiare l’ambizione quando mi accorgo che è un mezzo e non il fine. Il successo – e i talent mi sembra che stiano insegnando anche questo – può anche essere effimero, mentre la scoperta del sé attraverso l’arte è una gioia per cui si può essere grati alla vita per sempre. E’ la prima cosa che cerco di trasmettere ai ragazzi che frequentano le mie master class.

Hai un fan club numerosissimo. Chi è oggi, vista la tua doppia veste televisiva, il pubblico di Grazia Di Michele?

Diciamo che c’è uno “zoccolo duro” che mi segue da sempre e non demorde, che vuole organizzare raduni, incontri, che riconosco sempre ai concerti nelle prime file e sa a memoria non solo le canzoni, ma anche le interviste che rilascio e ogni tanto me le ricordano: “ma tu avevi detto che…”. Sono grata a questi amici, perché mi seguono con sincerità e affetto. Siamo cresciuti insieme. Ma anno dopo anno si affacciano nei messaggi di Facebook volti nuovi, e devo dire da quando lavoro ad Amici, mi contattano anche tanti giovanissimi. Mi conoscono prima come insegnante e dopo vanno a sentirsi i miei brani su youtube. In genere ad avvicinarli c’è una consonanza di fondo e attraverso loro scopro che nelle mie canzoni ho raccontato storie che non sono solo mie, ma anche le loro.

Cosa rappresenta per te il palcoscenico e che rapporto hai con il live?

Suonare, cantare è la cosa che amo fare di più al mondo. Ma il palcoscenico l’ho calcato anche come attrice: qualche anno fa con Alessandra Fallucchi abbiamo replicato per un mese una piece di Denise Chalem intitolata “Dì a mia figlia che vado in vacanza”. E’ stata una prova durissima perché ho debuttato da protagonista, con un personaggio molto complesso, ma lo rifarei già domani. Qualche anno prima con Maria Rosaria Omaggio abbiamo portato in teatro in tutt’Italia, ma anche in Svizzera e al Palazzo di vetro dell’ONU un recital sull’opera di Calvino: uno spettacolo multimediale che mi ha confermato che l’espressione di un concetto può avvenire in mille modi efficaci, purché dietro vi sia una regia artistica.

Prima di salutarci … Nel 1978 hai esordito con l’album Clichè. C’è qualcosa in generale che ti manca del mondo della musica di quegli anni?

Sì, tante. Ma la prima che mi viene in mente è il valore che si dava alla musica, sia dal lato di chi la produceva, sia dal lato di chi la consumava. Fare un disco era un’opera laboriosa e costosa, per questo si stava molto attenti alle scelte che si facevano, sia di produzione che di acquisto. Il ruolo dei giornalisti e dei Dj era selezionare, proporre, filtrare attraverso il loro gusto e la loro esperienza. Ho lavorato in radio come DJ e allora c’era una certa libertà nella scaletta che proponevamo. Oggi si sfornano decine di CD al giorno e poi a determinare il successo è quasi sempre solo la promozione e quindi si investe soprattutto in promozione. Dunque si investe di più in esperti di marketing e pubbliche relazioni e meno in artisti e informazione di qualità.

 

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